“Il linguaggio sospeso” fotografia, arte e zen per Sogetsu

Andrea Lippi partecipa con un breve saggio su fotografia, arte e Zen, al blog dell’associazione Ikebana Sogestsu di Roma

Il saggio può essere letto sul blog al seguente indirizzo: https://bit.ly/3nlDlwX oppure qui di seguito:

 

Il linguaggio sospeso

Ricordo spesso quella mostra, alcuni anni fa a Firenze: in una sala, nell’oscurità, erano esposti alcuni lavori di Mark Rothko, grandi macchie di colore ben illuminante nella penombra dell’allestimento. Mi avvicinai ad una tela ed iniziai a fissarla ed a provare, minuto dopo minuto, un senso di distacco dallo spazio in cui ero e di contemporanea e completa attrazione verso l’opera. Con l’immaginazione trovai una nuova e inaspettata profondità nel dipinto, e fu allora che quelle macchie di colore diventarono qualcosa di meno astratto: forse un campo di grano ed un cielo? forse quello stacco sfumato tra le due campiture poteva essere la foschia all’orizzonte? Compresi che quelle due grandi campiture di colore potevano trasportare lo spettatore verso nuovi e sconosciuti livelli di profondità e che quella visione si era fatta immagine in quel momento, in quella sala e che forse, il giorno dopo ne avrei avuta un’altra o forse nessuna.

Questa sensazione, di nulla che si fa sostanza, mi è tipica in molti contesti che hanno a che fare con il Giappone. Ad esempio, davanti ai paraventi di Tōhaku Hasegawa mi perdo ad interrogarmi su cosa si celi dietro a quelle nebbie. La mano del pittore disegna il pieno per rappresentare il vuoto, dona allo spettatore, la possibilità di andare oltre al visibile e la sensazione di aver afferrato una figura o un simbolo, in questa ostentata necessità che ogni volta abbiamo, di dover “riempire”, trovare le parole, dare un significato.

Nella casa tradizionale giapponese ci si può trovare smarriti: dove sono le pareti? Dove sono gli oggetti? Lo spazio in cui sono stato seduto ieri adesso non c’è più… Nell’architettura “shinden-zukuri”, originaria del periodo Heian, le pareti scorrevoli cambiano l’organizzazione della casa e si aprono verso il giardino fondendo e confondendo l’interno con l’esterno, il finito con l’infinito.

Nello haiku il significato, a discapito del significante, apre alla mente orizzonti lontani e diversi, crea suoni, ci trasporta da una stagione all’altra e come riesce in questo? Forse descrivendo minuziosamente una certa situazione? No, al contrario, uno Haiku lascia una sensazione di sospensione, che può farsi immagine nella nostra mente o rimanere tale come auspica Barthes:

 

“…le vie dell’interpretazione non possono che sciupare lo haiku: perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo…”

 

Potremmo continuare per ore a parlare e meravigliarci su come il concetto del vuoto sia al centro della cultura giapponese e, in modo più ampio, nella cultura orientale. Molti degli esempi citati hanno in comune concetti come asimmetria e armonia che combinati insieme danno vita alla composizione ritmica che distribuisce pesi e misure, che crea musicalità.

Nell’ ikebana, ad esempio, proprio l’armonia si nutre del vuoto affinché essa sia percepibile. Le mani dell’artista, come se tenessero un pennello per disegnare un ideogramma, liberano dal superfluo, accostano e allontanano, partendo dallo spazio vuoto e creando grazie ad esso.

Credo sia stimolante perdersi in queste sensazioni e credo che lo sia ieri come oggi, in quanto si tratta di argomenti senza tempo. In fotografia ad esempio potremmo citare Hiroshi Sugimoto e il suo progetto “Seascapes”: fotografie di paesaggi di mare e cielo, senza persone, senza barche, natanti o altro, solo mare e cielo che si incontrano inevitabilmente su una linea a volte netta a volte sfocata. Scene vuote, molto simili tra loro ma l’artista sente la necessità di scrivere il luogo dello scatto come a volerne richiamare l’identità anche se non riscontrabile, come a ricordare che quello che apparentemente ci sembra uguale in realtà può non esserlo. In questa incertezza di base, l’occhio dell’osservatore si perde nelle mille onde del mare che ricordano il tempo che passa e che non può essere arrestato, proprio come l’acqua, proprio come il concetto di “mono no aware”, una frase giapponese che richiama la struggente e nostalgica sensazione di consapevolezza che tutto non può essere per sempre. Una sensazione che descrive bene Yoshida Kenkō, scrittore giapponese vissuto tra il XIII e XIV secolo, in questo brano:

Se l’uomo non svanisse come le rugiade di Adashino, se non si dileguasse come il fumo sopra Toribeyama, ma rimanesse per sempre nel mondo, a che punto le cose perderebbero il loro potere di commuoverci

 Lo spettatore della foto di Sugimoto indaga costantemente l’immagine alla ricerca di un soggetto riconoscibile oltre al mare e il cielo: che sia una barca, una persona o la linea di terra, nella necessità, ancora una volta, di dover trasformare l’immaginazione in immagine vivida.

In fotografia da anni ormai cerco di dare forma al vuoto: che sia un paesaggio, la fitta pioggia tra i palazzi di una città o il volto di una persona. Vorrei che le mie foto fossero inconsapevoli contenitori di immagini più che immagini loro stesse e so che il Giappone può aiutarmi in questa impresa.

 

Andrea Lippi Fotografia- Lights of Japan

Il lago Ashinoko nei pressi di Hakone, come nello Haiku di Basho:

 Diario di viaggio sotto la pioggia e il vento (1684-85), Matsuo Basho