Wa: armonia tra costruito e natura

Sugimoto: profondità inquieta del mare

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Vicino ad Okayama in Giappone, esiste un isola che si chiama Naoshima. Per raggiungerla sono sufficienti solo poche decine di minuti di traghetto dal vicino porto di Uno. Questa piccola isola ospita numerose installazioni artistiche, molte delle quali vicino all’acqua, ed alcuni importanti musei. In particolare nella zona di Benesse l’architetto nipponico Tadao Ando, classe 1941, ha creato alcuni musei-opere d arte davvero imperdibili.

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Il cortile aperto al mare, con le opere di Sugimoto

 

Tra i più visitati, il Benesse House Museum, con le sue pareti in cemento ed i soffitti alti, vanta delle gradi aperture che permettono dal promontorio di vedere il mare e regalano la luce perfetta anche per gustarsi le opere d’arte della collezione permanente, di artisti giapponesi ma anche occidentali. Grandi e pesanti porte scorrevoli in vetro mettono in relazione lo spazio interno con quello esterno, ed è semplice, varcando la soglia, passare dall’ambiente artificiale a quello naturale, dove trovano spazio installazioni d’arte perfettamente integrate con il contesto.

Ed è proprio da una di queste porte scorrevoli che si accede ad un cortile, la quale apertura su un lato regala uno scorcio sul mare, che ospita alcune foto di Hiroshi Sugimoto. Conoscevo già l’artista, ma vedere le sue opere della serie “Seascapes” in quello spazio e in Giappone, mi ha trasmesso sicuramente un’emozione molto forte.

 

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Due foto di Sugimoto appese ad una delle pareti in cemento che creano lo spazio della corte del museo

 

Sugimoto nasce a Tokyo nel 1948 e si laurea in Economia alla St. Paul’s University di Tokyo nel 1970. Gli anni successivi  viaggia in Russia, Polonia, Cecenia e Ungheria ma è negli States che decide di trasferirsi per studiare fotografia all’Art Center College of Design di Los Angeles. Nel 1974 si trasferisce a New York dove lavora come fotografo e antiquario di articoli d’arte giapponesi.

Nel 1977 la prima consacrazione con la sua prima esposizione personale alla Minami Gallery di Tokyo e dopo circa due anni è il MoMa di NY ad interessarsi di alcune opere ed esporle al pubblico della city. Nella sua carriera ha avuto molti riconoscimenti, come nel 2001 con il Premio Internazionale per la Fotografia della Hasselblad Foundation e nel 2006, a Madrid, il premio di PhotoEspaña.

Nel corso degli anni Sugimoto ha portato avanti alcuni importanti progetti, ma uno su tutti lo rende particolarmente famoso al pubblico, forse perchè trattasi alla fine di un “work in progress” ovvero il progetto “Seascapes“.

 

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Seascapes sono fotografie di acqua e di cielo, scattate in molte parti del mondo, anche in Italia, quasi tutte aventi la stessa composizione, la stessa inquadratura e lo stesso punto di vista. Cielo e mare si spartiscono la superficie della foto, la luce illumina in cielo, crea riflessi sull’acqua, acqua che talvolta crea finissime increspature altre volte è ritratta in movimento, dando vita a superfici vellutate con chiaroscuri più forti.

Non esiste l’uomo in queste foto, in nessuna forma, non esistono barche o segni di civiltà, non si sbaglia, esiste solo mare e cielo.

Ad un primo sguardo le foto sembrano tutte uguali, ma la parte più interessante arriva proprio quando decidiamo di soffermarci con lo sguardo su ogni singola opera, apprezzandone le sfumature, la fitta trama delle increspature dell’acqua e quella linea talvolta inesistente o semplicemente sfumata che rappresenta l’orizzonte. L’occhio dell’osservatore si rilassa o al contrario trasmette stati d’ansia per una condizione di sospensione tra quello che può essere accaduto o quello che accadrà dopo lo scatto. E’ come se l’immagine del mare e del cielo, senza riferimenti all’uomo, ci porti in una condizione di inadeguatezza e di insicurezza dalla quale vorremmo fuggire.

Foto tutte uguali, si certo potrebbero apparire così, ma è proprio la serialità e l’apparente somiglianza, che come in un gioco delle differenze permette lo spettatore di valutare le diseguaglianze e rendersi consapevole che nella quiete di una somiglianza, è ineluttabile la differenza grazie all’incedere del tempo.

L’osservatore davanti ad una foto di Sugimoto, si pone come davanti ad un’opera di Rothko, in cui fissando l’opera d’arte, si compie l’ipnosi grazie alla geometria, al colore certo, ma anche alle forme dai confini morbidi, appena sfumati che rendono la tela uno spazio in dilatazione.

Dice Sugimoto riguardo a “Seascapes”:

«Ogni volta che guardo il mare, percepisco un tranquillo senso di sicurezza, come se mi trovassi nella mia dimora ancestrale; e mi imbarco in un viaggio all’origine del vedere»

forse anche complici di ricordi d’infanzia e lo scorrere del mare dal finestrino del treno negli spostamenti lungo le isole nipponiche…

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Una stanza di una casa tradizionale giapponese

 

Certo le origini del fotografo suggeriscono altri due termini per definire la sua opera: “vuoto” e “fluttuante“, due concetti che risiedono profondamente nella cultura giapponese.

Nei templi, le case da te, ma anche nelle maschere senza espressione del Teatro Nō, il vuoto crea lo spazio necessario per la contemplazione. Il cosmo nipponico, fluttuante per natura, vive sull’acqua e vi si rispecchia, quasi alla deriva delle altre culture.

In “Seascapes” quindi c’è tutto lo spazio per ritrovarsi ed interrogarsi ed alla fine, forse, concludere con una famosa frase di Jorge Luis Borges che diceva:

“Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare.”

 

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Il cielo ed il mare al mio ritorno ad Okayama dopo la visita di Naoshima

Origini della fotografia in Giappone

 

Quando si parla di storia della fotografia ci vengono in mente le stesse cose: la Francia, l’Inghilterra, Daguerre, Fox Talbot, la prima foto scattate, le lunghe esposizioni il Pont Neuf ecc. ma se cerchiamo notizie inerenti allo sviluppo della fotografia fuori dal vecchio continente, le informazioni sono più confuse.

In questo articolo riporto brevemente la nascita della fotografia in un Paese ancora isolato nel XIX secolo, ovvero il Giappone. La nascita della fotografia si intreccia con i profondi cambiamenti che il Paese del sol levante subirà proprio in questo tumultuoso periodo storico.

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Fino a metà dell’800 in tutto il Giappone era in vigore il Sakoku, ovvero era proibito agli stranieri l’ingresso entro i confini nazionali e gli scambi commerciali erano limitati solo con Cina e e Paesi Bassi. Era quindi molto difficile se non impossibile poter commerciare con le isole nipponiche, ed era ancora più difficile poter avere scambi culturali con paesi al di fuori di quelli consentiti.

 

Il ritratto di Nariakira eseguito da Ichiki Shiro

Il ritratto di Nariakira eseguito da Ichiki Shiro

Shimazu Nariakira, membro di una famiglia molto importante, seppur fedele alle tradizioni del proprio Paese, si interessa rapidamente alla cultura occidentale soprattutto per tutte quelle innovazioni tecnologiche che venivano portate avanti, e nel 1848 (con il Sakoku ancora in atto) acquista un’apparecchio fotografico, facendolo imbarcare su una nave proveniente dai Paesi Bassi diretta a Nagasaki. Shimazu, insieme ad alcuni suoi collaboratori tenta per ben dieci anni di creare una fotografia, un esperimento lunghissimo, complice l’assenza totale di nozioni tecniche fotografiche dovute dalla mancanza di scambi di informazioni con l’occidente. E’ il 17 Settembre 1857.

Prima di questa data accade però un evento che sconvolgerà per sempre il Paese. Nel 1853 infatti alcune navi statunitensi comandate dal commodoro Matthew Perry attraccano al porto di Yokosuka infrangendo la legge del Sakoku, saranno le cosiddette “navi nere“. Perry comunica ai Giapponesi che gli stati uniti intendono aprire una rotta commerciale con il paese del sol levante e che ciò avverrà anche con la forza se fosse necessario. Il comandate lascia nelle mani dei rappresentanti nipponici un trattato e chiede che venga fatto trovare firmato al suo ritorno, dopo un anno.

Le "navi nere" di Perry

Le “navi nere” di Perry

Esattamente 12 mesi più tardi Perry fa ritorno in Giappone con molte più navi ed ottiene la firma incondizionata del trattato senza sparare nemmeno un colpo di cannone. Le “Navi nere” non portarono in questa parte di oriente solo il commercio, ma avviarono una fitta rete di scambi culturali tra i due popoli. Eliphalet Brown, un dagherrotipista di New York, al ritorno della missione di Perry, riporta in america una grande quantità di immagini facendo conoscere al popolo statunitense una realtà mai vista prima, con volti, usi e costumi profondamente diversi.

Principe di Idzu, 1856 - immagine ovale, 9x6 pollici, litografia

Principe di Idzu, 1856 – immagine ovale, 9×6 pollici, litografia – foto di E.Brown

L’isolamento linguistico e geografico dei giapponesi aveva creato negli anni una cultura visiva completamente diversa da quella presente in occidente: il realismo (anche in pittura) ma addirittura l’uso della prospettiva (in occidente conosciuta da oltre quattrocento anni), concetti nuovi che con non poche difficoltà adesso entravano con un impatto molto forte nella cultura nipponica.

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Arte giapponese del periodo Edo

E così, mentre una parte del Paese avvia uno scambio commerciale e culturale con la cultura statunitense, una parte cerca frenare l’ondata americana ritenuta un pericolo per la perdita di identità giapponese. Nasce così una sorta di guerra civile interne, in cui molti Samurai, ribellandosi alla decisione di aprire le frontiere agli stati uniti, si mettono contro l’imperatore. Questo periodo è noto come Bakumatsu.

Un clan combattente, nel periodo b

Un clan combattente, nel periodo del Bakumatsu

 

Tornando agli aspetti “fotografici”, molti giapponesi, che hanno interesse nelle scoperte tecnologiche, imparano i fondamenti della fotografia proprio dagli americani arrivati nella loro terra, diventando i pionieri della fotografia nipponica.

Kazumasa Ogawa

Kazumasa Ogawa

 

Ma chi vuole avvantaggiarsi rispetto ai colleghi, è costretto a partire e raggiungere gli stati uniti. Lo fa per primo Kazumasa Ogawa che nel 1882 fa un viaggio che lo porta 18 mesi tra Boston e Filadelfia, imparando soprattutto le tecniche di stampa, in quanto in patria aveva già acquisito molte conoscenze sull’uso della macchina fotografica.

Al suo ritorno inaugura uno studio fotografico a Tokyo, il “Gyokujunkan” e viene subito contattato dal governo per partecipare ad alcune spedizioni per ritrattare il patrimonio culturale e poi coinvolto anche nella documentazione delle guerre sino-giapponesi e russo-giapponesi.

Nel 1888 avvia una tra le prime manifatture di lastre pronte all’uso in Giappone ed infine crea un’associazione che riunirà tutti i fotografi amatoriali nipponici. L’impeto imprenditoriale di Ogawa non conosce soste e nel 1889 avvia un’attività di fotoincisioni investendo quindi anche in campo editoriale e attivando una rivista fotografia oltre a numerose pubblicazioni con riproduzioni di fotografie. Molte pubblicazioni create da Ogawa sono in doppia lingua, conoscendo il potenziale che certe immagini hanno tra i curiosi intellettuali e collezionisti d’arte occidentali.

 

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Momotaro (nome della Gheisa ndr) di Shinbashi, da “Types of Japan. Celebrated Geisha of Tokyo” 1891 collotipia

 

Quindi, come avviene in molti casi anche in occidente, il fotografo diventa anche imprenditore e divulgatore e lo fa attraverso le proprie immagini e quelle dei collaboratori. Nel 1891 Kazumasa pubblica “Types of Japan. Celebrated Geisha of Tokyo” dove inserisce 12 immagini in bianco e nero, eseguite in studio sempre nella stessa posa. Ogni foto riporta la didascalia con il nome ed il quartiere dove la Geisha vive e lavora. Queste fotografie sono solo una parte di una collezione che Ogawa espone presso il più alto edificio di Tokyo del momento, ovvero il Ryounkaku, progettato, ironia della sorte, da un ingegnere scozzese.

 

Una curiosità: oggi il porto militare di Yokosuka, quello dello sbarco della navi nere del commodoro Perry, ospita una base navale americana che in passato è stata molto attiva in oriente.

 

 

Weegee: storia di un fotogiornalismo speciale…

“Queste fotografie di Weegee non sono assolutamente un fenomeno isolato, anche se costituiscono il primo contributo rilevante del giornalismo di attualità alla fotografia intesa come medium creativo” Paul Strand, 1945

 

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Le origini

Tutti lo conoscono come Weegee ma di nome faceva Usher fino all arrivo a Ellis Island dove prese il nome di Arthur. Scappò da quella che oggi è l Ucraina con la sua famiglia a soli 11 anni nel 1910, ma l arrivo in America non riuscì a migliorare la propria condizione di vita.

Il padre che aveva studiato da rabbino non aveva un lavoro fisso, bensì piccoli lavoretti umili e così anche Arthur fu costretto a scendere nelle strade della grande mela in cerca di occupazione. Infatti nel 1914 abbandona gli studi ed inizia a lavorare in un primo momento come assistente fotografo (non molto retribuito) poi la situazione si complica ulteriormente quando se ne va da casa.

Vive così un periodo come senzatetto, riuscendo a volte a trovare piccole occupazioni saltuarie come lavapiatti, garzone e impieghi alla giornata. Nel 1918 la svolta, viene assunto da Ducket & Adler dove lavora come tutto fare, sia come assistente fotografo sia come facchino, per poi dopo tre anni viene finalmente assunto dal New York Times come assistente alla camera oscura.

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il timbro apposto sul materiale di ACME NewsPictures inc in cui si chiedeva all’utilizzatore della foto di citare i crediti

Gli anni venti e la carriera da freelance

Nel 1924 si trova all Acme Newspictures, un’agenzia fotografica che si occupa di procurare immagini per varie testate giornalistiche della città. Oltre a questo impiego inizia ad avere alcune collaborazioni come foto reporter, fino al 1935, quando stufo di veder pubblicati i propri lavori senza crediti, intraprende la carriera di freelance. Va a vivere in un monolocale in Central Market Place, vicino di casa di numerosi artisti e giornalisti che si occupano di crimine, vicino a negozi di armi e stazioni di polizia.

Ed è proprio da questi uffici che ricava le informazioni per il proprio lavoro, prima seguendo la telescrivente che a mezzanotte di ogni giorno informava sugli accadimenti in città e poi attraverso una radio della polizia che installò in auto e in casa. Le notizie della polizia e le conoscenze con losche figure newyorkesi (spacciatori, gangster, spogliarelliste ecc) permisero a Arthur di trovarsi al posto giusto nel momento giusto….spesso fiutando l accadimento ed arrivando prima della polizia.

Weegee quindi, ovvero la storpiatura di “ouija” il nome del dispositivo formato da una tavola alfabetica e una lancetta che nelle sedute spiritiche viene utilizzato per ottenere informazioni dall’aldilà.

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Murder is my business!

Nel 1941 la Photo leauge di New York gli dedica la prima mostra “Murder is my business“, una serie di foto e articoli di giornale appese a pannelli, senza cornice, come se fossimo all interno di una stazione di polizia di fronte ad una bacheca su cui si appuntano indizi e tracce per piste di un caso si omicidio.

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Naked city, il libro leggenda

Passano quattro anni dalla mostra e Weegee aka Arthur, pubblica: “Naked city“, con ben 239 immagini, che egli stesso dedica alla sua città, New York, nella quale vive a fondo ogni attimo, aspettando la notte.

In questo libro, fotogiornalismo e ricerca artistica si fondono, la cruda realtà esce dalla stampa in bianco e nero dai forti contrasti (Weegee amava usare il flash anche di giorno) ed i corpi diventano l object trouve difronte alla fotocamera.

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Murder is my business a NYC nel 2012

Nel 2012 l International center of photography di New York, ripropone con grande successo “Murder is my business” che ho avuto la fortuna di visitare perché mi trovavo in città. L allestimento e le foto, hanno permesso allo spettatore di fare un salto indietro nel tempo.

Potete osservare la mostra, che è passata in Italia l’anno successivo, dal sito del centro internazionale di fotografia di New York cliccando qui

Alcune immagini di Weegee dal canale YouTube di “The art of photography”